Cosa ricordo di PINO VENEZIANO, grande cantastorie amico mio

PINO VENEZIANO, GRANDE CANTASTORIE AMICO MIO

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(prima dei miei ricordi, la sua ufficiale biografia)

Pino Veneziano nasce a Riesi, Sicilia, il 2 luglio del 1933.
Durante la guerra il padre, un carabiniere che ha prestato servizio prima a Castelvetrano e poi a Sciacca, abbandona la famiglia. Pino interrompe la scuola in seconda elementare, lavora come guardiano di capre e garzone di fornaio.

A 17 anni, con la madre e il fratello, si trasferisce a Castelvetrano e lavora come garzone nei bar. Agli inizi degli anni ’60 è cameriere a Selinunte e, verso la fine del decennio, con due amici, apre un suo ristorante.

Impara a suonare la chitarra nei primi ‘settanta, a circa 40 anni, e poco dopo scrive la sua prima canzone, ‘Lu sicilianu’. Le altre ‘La Jatta’, ‘La festa di li porci’, ‘Settembri’… vengono quasi una dopo l’altra: una trentina, il materiale è in fase di riordino.

Negli anni ’70 e fino a metà degli anni ’80, il ristorante Lido Azzurro e poi La Zabbara diventano un punto di riferimento a Selinunte: don Pino serve ai tavoli e
dopo canta le sue canzoni. Tra i suoi clienti ci sono anche Lucio Dalla e Fabrizio De Andrè che lo ebbe come spalla nel suo primo concerto in Sicilia.

Veneziano regala le sue canzoni anche alle Feste dell’Unità e, nel 1975, 
incide il suo primo e unico disco, ‘Lu patruni è suverchiu’ (Il padrone è superfluo), edito dai Circoli Ottobre. Sulla copertina di quel disco, il poeta Ignazio Buttita lo definisce ‘un cantastorie che fa politica e la sublima con la poesia’.

Nell’estate del 1984 al ristorante si ferma anche Borges, si commuove alle canzoni di Pino Veneziano (che per lui, dice, non hanno bisogno di traduzione) e chiede di carezzargli a lungo il volto per “vederlo”.

Lo stesso anno, una compagnia di anziani di Riesi in gita a Selinunte casualmente fornisce a Pino informazioni sul padre: si trova in un casa di riposo a Gela e, quando lo va a trovare, scopre che anche lui suona la chitarra e canta motivi popolari.

Il 1986 è l’ultimo anno in cui Pino lavora al ristorante. Intristito dalla morte della moglie e provato da una vita di fatica, per arrotondare la pensione fa il posteggiatore al Parco Archeologico e, in tasca, porta sempre un quadernetto su cui continua a scrivere canzoni.

Muore il 3 luglio 1994, il giorno dopo il suo sessantunesimo compleanno.

“Lu patruni è suverchiu” (Il padrone è superfluo) è l’unico disco di Pino Veneziano, un Lp pubblicato a metà anni ‘settanta dai Circoli Ottobre, associazione di cultura popolare alternativa operante nell’area di ‘Lotta Continua’. Adeguato al contenuto, il titolo del Lp è già una dichiarazione programmatica.

La presentazione, in copertina, è del poeta Ignazio Buttitta

Ho qui con me, nella mia casa di campagna, Pino Veneziano, cantastorie.
Ci ha appena finito di cantare un gruppo di canzoni incise in un disco prossimo ad uscire. Il successo sarà certo, perché Pino alla potenza della voce aggiunge la forza drammatica. I testi sono suoi, i motivi musicali pure: un cantastorie che fa politica e la sublima con la poesia.
Il suo discorso è semplice, popolare e convincente. Riesce a farsi capire dai braccianti, in maggioranza analfabeti e semianalfabeti. Gli argomenti sono la verità, da popolano a popolano senza inganni: i padroni non sono necessari, le guerre nemmeno; le case sono necessarie, perché un coniglio senza tana, un uccello senza nido, sono come i pesci senza mare, dice.
Da ragazzo – ora ha quaranta anni – Pino faceva il guardiano di capre, di vacche; dormiva in campagna; frequentò la seconda elementare.
E’ stato sempre povero, povero ancora oggi, ma ricco di poesia e d’amore per gli uomini che soffrono. E’ un popolano che fa cultura. Un popolano che canta la Libertà e la Giustizia e le versa nei cuori con la voce.
Io, se fossi ragazzo, gli porterei la chitarra, lo seguirei ovunque va, lo sentirei cantare nelle piazze e vedrei i braccianti commuoversi, entusiasmarsi,
e lui col canto dargli la speranza.
La speranza che io, lui, e tutti i lavoratori,
aspettano con l’alba di domani e non più tardi.

 

COSA RICORDO DI PINO VENEZIANO,
GRANDE CANTASTORIE AMICO MIO

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SELINUNTE
Cantavo – d’estate al mare a Selinunte – agli amici l’Affascinante, una mia canzone appena scritta, ed un equivoco – in cui tutti cadevano – nasceva dal fatto che nel testo non compariva la parola Musica, ma era lei la protagonista, lei a sfiorarmi le dita se la cercavo sulla tastiera, lei ad affascinare tutti se ascoltata, lei che ‘briosa e spumeggiante’ faceva ‘girar la test’a tutta la gente’.

Anche Pino Veneziano, da tempo scomparso e grande cantastorie amico mio, cadde nel tranello. Scendendo le nuove scale di Jojò per la spiaggia ed il suo ‘Lido Zabbara’, mi vide solo, seduto su uno dei gradini di legno, mentre cantavo guardando oltre la spiaggia il mare e si arrestò in silenzio alle mie spalle.
Non visto, ascoltò tutto il mio canto e, quando smisi, rendendosi infine palese, esclamò: ‘Ma lu sa, Pinù, chi ‘sta canzuna è bbedda veru? (Ma lo sai, Pinùccio, che questa canzone è bella davvero?).
Sapeva che mi ero lasciato con Vera dopo anni ed anni d’amore e, da amico, un po’ esitando aggiunse: ‘A mia lu po’ diri, chi ffa… ggià ti ’nnamurasti ’n atra vòta? (A me lo puoi dire, che fai.. ti sei già innamorato un’altra volta?). Ed io: ‘Sulu di musica mi ‘nnamuravi, don Pinu, sulu di musica… nun si scantassi! (Solo di musica m’innamorai, don Pino, solo di musica… non tema!)”.

AFFETTO E RISPETTO
Ritengo questo episodio bastevole a far intuire di quale profonda attenzione ed affetto e rispetto fosse intessuto per anni il nostro rapporto, praticamente fino alla sua morte: la stima che don Pinu ed io avevamo l’uno per l’altro rafforzava in entrambi l’inflessibile intento che occorre nel nostro mestiere bello e difficile. Quella straordinaria nostra vicinanza non fu solo dovuta alla nostra comune attività di cronisti poeti-cantastorie. Non sarebbe mai stata possibile una tale amicizia, così solidale e duratura, se non per il fatto che abbiamo avuto entrambi la fortuna di nascere in Sicilia e crescere nello stesso luogo: all’ombra dei capitelli di Selinunte, la più possente città dorica dell’antica Grecia e suo baluardo – nel mare africano, sulla costa siciliana – di fronte a Cartagine.

LA MAGIA DEL LUOGO
Nessun critico, per quanto geniale, potrà mai penetrare e sciogliere il nodo del vero perché del ‘modo’ creativo di Pino Veneziano, nè del mio, se non andando a vivere giorni e notti a Selinunte quando non ci sono turisti, dall’autunno inoltrato fino a tutto febbraio.
Solo allora potrà recepire ciò che gli serve ed incontrerà la vera magia del luogo e della sua gente nei negozietti, nelle locande, all’asta del pesce la mattina all’alba, nei ristoranti e bar anche deserti ma comunque aperti, nelle botteghe di falegname o di barbiere e nell’oro delle colonne antiche e delle sabbie, nel verde tenero delle colline, in quello scuro degli arbusti resinosi tra le dune, nel mare invernale cangiante dal violetto al turchese.

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LA BELLEZZA COME DICE PLATONE
Se davvero – come dice Platone nel ‘Simposio’ per bocca di Socrate – “la Bellezza è un’unica dea che nutre di sè le infinite forme“, in ognuna di esse a Selinunte la dea ha superato sè stessa in un abbraccio perfetto tra natura e cultura: dalle onde alla sabbia e alle colline, dalle colonne ai capitelli e ai musei.
Vivere in un posto così bello è una vera fortuna: la Bellezza ha un enorme potere educativo e se in un luogo c’è un miracoloso equilibrio di Bellezza vera, naturale e culturale, ogni abitante ne nutre corpo e mente.
A Selinunte non c’è chi non si senta come minimo un poeta e, se tra questi c’è chi per supplementare fortuna ha un tantino d’orecchio e impara tre accordi per chitarra, dal poeta ecco nasce un nuovo cantastorie.
Perché stupirsi? In paese, fin da bambini, eravamo affascinati dai cantastorie: non c’erano ancora automobili ma carretti scolpiti e colorati, trainati da cavalli lucenti e infiocchettati, e memorabili erano i canti dei carrettieri e proprio da questi canti spesso i cantastorie prendevano metro e cadenza.

NON C’ERA ANCORA LA TELEVISIONE
Ai tempi di cui parlo, il bello era che non c’era ancora la televisione neppure in bianco e nero. A molti – e questo era il brutto – mancava anche il pane e la scuola e mio nonno, Peppino come me, scultore liberty e appassionato oratore, aveva vittoriosamente guidato i braccianti nella occupazione delle terre.
Ora, ogni anno organizzava la ‘festa del 1°Maggio aggiungendo, al colore dei carretti scolpiti e dipinti e dei pennacchi dei cavalli, le ghirlande gialle dei ‘ciuri di maju’ (‘Fiori di Maggio’) in una selva di bandiere rosse. I cantastorie cantavano ammiccando alle scene del loro cartellone e venivano a farlo nei giorni di festa perché la gente avesse tempo e fossero in molti a correre per vederli e sentirli e ad offrir loro una monetina. Piccoli e grandi correvamo in piazza per informarci, per sapere, per imparare divertendoci: non c’è da stupirsi se Veneziano ragazzo ed io bambino – avevo sei anni quando lui a diciassette venne a stare in paese – sognammo di fare i cantastorie come, in luoghi apparentemente più civili, altri sognano di fare il pompiere o lo scienziato.

Ho parlato fin qui, spero utilmente, del luogo magnifico e del contesto culturale da cui venimmo Veneziano ed io che fummo poi, da grandi, moderni cantastorie con i propri dischi posati davanti in offerta. Vorrei però ora marcare più nettamente il segno attorno a don Pino, con il quale cantando ho movimentato infinite notti nelle estati selinuntine e condiviso argomenti ed ansie e timori e sogni e delusioni e incazzature per altrettanti inverni. Inverni dove si cantava alla grande come d’estate solo se capitava una comitiva di turisti o di amici, altrimenti si guardava il mare stando zitti a meditare o ci si isolava in un angolo a provare canzoni da poi cantare agli altri quando pronte.

UN CANTARE DI AMICI AL RISTORANTE
Tutto questo avveniva a Selinunte, estate o inverno che fosse, al ristorante dove ci si vedeva e dove don Pino lavorava. A Selinunte non cantavamo in piazza, non ricordo di averlo mai fatto: possiamo, come spesso faccio a Pisa, essere andati a cantare in un altro ristorante o albergo, se richiesti.
Cantare in piazza no, Il mestiere di cantastorie lo facevamo solo se andavamo, o ci chiamavano, altrove. A Selinunte il nostro era ‘solo’ un ‘cantare tra amici al ristorante’, anche se d’estate questo avveniva quotidianamente a pranzo e a cena come minimo in mezzo a cento o duecento persone.
Fu giusto così, mi dico, perché Selinunte non è un luogo dove i cantastorie vanno a cantare, Selinunte è stata per noi la sorgente, la forgia, la sede estiva della ‘skola’ siciliana da dove poi i cantastorie vanno in giro a cantare.

Il ristorante fu prima il “Lido Azzurro”, dove don Pino faceva il cameriere come il nostro comune amico Joiò, che da ragazzo aveva fatto il bagnino nella spiaggetta sotto il locale. Il ristorante dove poi continuò il fenomeno delle nostre ‘serate di massa con cantastorie’ fu “La Zabbara”, che don Pino mise in piedi con Joiò e Giacomino e dove – oltre a me che non sembravo saper fare altro – cantava quasi ogni sera, malgrado le sue incombenze di ‘ristor-attore’, con sempre maggiore successo: successo di Pino Veneziano che, da allora, cominciò a espandersi in Sicilia e – presto – anche fuori dell’isola.

LA TRADIZIONE ORALE DELLE CLASSI SUBALTERNE
Vediamo ora le tappe di quel successo, per quello che ne so personalmente: su quel che non so verranno spero contributi di altri che hanno avuto come me il piacere di conoscerlo e amarlo.
Devo però subito chiarire che, essendo io migrato con i miei da piccolo a Pisa – per mia fortuna altra città che direi unica, dove la Bellezza è prevalente – pur mantenendo nei mesi estivi e nelle vacanze di Natale un rapporto diretto e vivo con mio nonno Peppino e la magia di quegli antichi luoghi siciliani, al nord intanto partecipavo ai ‘movimenti’ di quegli anni, che a Pisa furono precocissimi.
Bisogna infatti tener conto che, quando nel ’73 Veneziano venne – quarantenne – da Castelvetrano a Selinunte in cerca di lavoro ed imparò la chitarra dal nostro comune maestro zu Vicè (‘zio’ Vincenzo) e iniziò a musicare i propri versi, io ‘in continente’ avevo inciso due album per i ‘Dischi del Sole’ con il  ‘Canzoniere Pisano’ che avevo fondato con Piero Nissim nel ’66 e rinnovato dal ’69 con Alfredo Bandelli, cantato in giro per il Nuovo Canzoniere Italiano, cercato – tra le canzoni popolari in archivio nei meandri dell’Istituto Ernesto De Martino’ – quella ‘verità non scritta’ che Gianni Bosio mi indicò trovarsi nella ‘tradizione orale delle classi subalterne’, nel ’70 avevo poi fondato a MIlano e con altri inciso i ‘Dischi di Lotta Continua’ e creato, con Carlo Alberto Bianchi ed altri, i nostri novantasei ‘Circoli Ottobre” e, non ultimo, avevo lavoravo con Dario Fo dal ’68 e – dal ’70 – anche con il coerente amico Pier Paolo Pasolini. 

LA VOCAZIONE DI PINO VENEZIANO
Accertata ed accettata che fu da noi, suoi amici indigeni, la vocazione di Pino Veneziano a fare il cantastorie ed osannata la bellezza dei suoi versi in Siciliano, personalmente non smisi  mai di interessarmi di lui ogni volta che potevo, dargli amicizia e aiuto, affiancarlo nell’arrangiare le sue prime canzoni, esortarlo a scriverne di nuove, appoggiarlo felice nei cori quando iniziò (era un uomo riservato) ad esibirsi al ristorante, invitarlo a cantare dal palco ogni volta che capitavo con uno dei miei spettacoli in Sicilia, invitare a fare altrettanto chiunque tra i colleghi cantastorie già famosi scendesse dal nord a fare serate in Sicilia.
Cosa è mancato allora – non certo a causa di Pino Veneziano – per una pubblica e piena, non postuma, affermazione del suo genio?
Cosa si è frapposto ad un suo successo nel mondo ingiusto ma ‘ufficiale’, un successo non consacrato dalle giurie di Sanremo ovviamente ma – come dovuto ad un vero cantastorie quale fu Pino Veneziano – non dico da centinaia di migliaia di persone che cantano in coro le tue canzoni come, per miracolo di coincidenze, avvenne a me per l’intero ‘movimento’ dal ’66 al ’75, ma almeno da un consenso intellettuale convergente e forte che ne decretasse ‘ufficialmente’ sui comuni media ‘ufficiali’ di allora (come, ricordo, invece accadde a Trincale ed al grande Ciccio Busacca) la bellezza e la forza che caratterizzarono la sua vena creativa?

LE COSE CHE NON HANNO GIOCATO A SUO FAVORE
Mi chiedo quali sono dunque le cose che non han giocato a favore del grande Pino Veneziano dal ’75 quando iniziò a cantare fino al ’94 quando ci lasciò.
Sono, come tutti, felice che Buttitta e Borges lo abbiano conosciuto ed amato, sono lieto di averlo presentato personalmente all’amico De Andrè e di averlo fatto cantare con lui. Fu per tutti normale che chi lo ascoltasse anche una sola volta l’amasse subito tanto quanto noi, suoi amici di ogni sera. Questo a Selinunte, dove abitava. E comunque in Sicilia. Per un tempo troppo breve ed in troppo poche occasioni don Pino andò oltre lo Stretto a cantare.
Non avendo avuto modo di aiutarlo più di quanto feci, potrei schivare rimorsi e sensi di colpa versando – come altri fanno – fiumi d’inchiostro sui ‘sentimenti’ che avrebbero concorso al declino di don Pino innamorato di una moglie scomparsa prematuramente lasciandolo nel dolore ma, per onorare anche scientificamente la memoria dell’amico cantastorie, cerco altre cause precise e ne individuo due.
Una fu la distanza che è causa d’isolamento per quella nostra landa natale, che non sarebbe però così magica e bella se non a lungo dimenticata: ‘isola culturale’ superstite del nostro mondo arcaico mitico e vero che, invece, altrove perde nel generale degrado i segni della Bellezza culturale e naturale Bellezza. Magnifico isolamento che però – con le sue, e non solo chilometriche, distanze dal ‘mondo moderno’ – tenne Pino Veneziano prima sconosciuto ai più e, dopo, difficilmente reperibile e sempre lontano dai media.
L’altra causa che certamente individuo fu l’evolversi o, peggio, l’involversi della situazione politica che, da allora, con brevi illusorie parentesi di fragile ottimismo ‘di sinistra”, non ha fatto che peggiorare scivolando fino alla attuale telecrazia.

COSA STAVA ACCADENDO
 L’euforia ottimistica del ‘movimento’ era durata fino al ’73 e stava ora arrivando il cosiddetto ‘riflusso’. Scrissi “Compagno sembra ieri” – come i compagni di allora – vissi e soffrii, quale essa fu, la fine del movimento: un orribile e terribile strangolamento dell’Eros. Carlo Alberto Bianchi ed io, che li avevamo fondati e diretti prima da Milano e poi da Roma, lasciammo i ‘Circoli Ottobre’ diventati ormai, grazie allo slogan ‘la politica al primo posto’, una appendice solo economica da spremere per il giornale ‘Lotta Continua.
Si trovarono così a doverci sostituire Sergio Martin e Piero Nissim che si trasferirono appositamente a Roma e, poveri loro, dovettero fare del loro meglio prima del prevedibile naufragio da me preannunciato.
Lasciando per sempre la sede nazionale dei Circoli, ero appositamente passato dalla sede del giornale per consegnare ad Adriano Sofri, nostro ‘capo’, un mio documento dal titolo eloquente forse troppo severo: “Il pesce marcio puzza dalla testa”.
Scesi con Vera, brava compagna di quei tempi, a Selinunte per purificarmi da quel veleno e proprio allora Pino Veneziano per la prima volta ammise voler fare un disco (un ‘Ellepì’ si diceva allora): l’unico che poi fece e che di lui rimane.
L’amico era maturo, pronto a rischiare. Desiderava finalmente fare un disco proprio ora che io ora ero in difficoltà persino per incidere il mio.

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Nel ’75 Adriano Sofri – che con infiniti altri ‘compagni’ avevo seguito per anni – pur non dissentendo dalla analisi spietata che pubblicamente offrivo in “Compagno sembra ieri”, si opponeva alla sua pubblicazione e la canzone – che già cantavo in giro e a lui cantai tra i primi – restava discograficamente in un cassetto.
Perfino l’amico De Andrè, commosso dai miei versi, aveva inutilmente tentato di farmi incidere per la sua casa discografica e mi volle per questo con sé a Milano: ne è testimone Dori Ghezzi, con la quale lo trovai nell’albergo dove mi aspettava per portarmi alla ‘Produttori Associati’.
Ero uscito anche da Lotta continua che sprofondava in quella che chiamavo ‘via alcolica al socialismo’ grazie ad una emergente corrente ‘neo-stalinista’.
Non avevo più niente da muovere. Ero solo come mio nonno Peppino quando, dicendo che il Partito Socialista era ora in mano alla massoneria, ne uscì.
Dire questo non mi pare azzardato, ora che il Sofri cambiava in “Reporter” il nome del nostro quotidiano “Lotta Continua” per salvare il giornale e i giornalisti grazie all’amico Claudio Martelli e all’amico del suo amico, Bettino Craxi.

RINGRAZIAMO DE ANDRE’
Che fare per Pino Veneziano? Visto che in Sicilia, pochi anni prima, don Pino si era visto con il Piero Nissim che a Palermo operava con il suo Teatro Operaio ed ora con Sergio Martin da Roma gestiva i ‘Circoli Ottobre’ al posto di Carlo Alberto e mio, pensai di indirizzarlo presso i loro uffici romani.
Mancava però una occasione per farlo in ‘pompa magna’ così da rendere l’operazione non solo culturalmente ma anche economicamente vantaggiosa, o almeno non azzardata’, agli occhi della Direzione di Lotta Continua.
Tale occasione si presentò quando con l’aiuto di tutti organizzai a Pisa per l’amico De Andrè il concerto inaugurale del suo primo tour.
Timido all’inizio, ma ora entusiasta, Fabrizio mi chiama a metà concerto a cantare sul palco le mie tre canzoni che amava di più (‘Eccoti lì a pensarla’, ‘Fatima e Fawzia’, ‘Yanì sulla strada di Ibiza’, scritte nel ’72 durante un viaggio di due mesi in Nord Africa in compagnia dell’amico artista Andrea Rossi Da Morrona) e, alla notturna resa dei conti economica dell’evento, non vuole dall’incasso neanche le spese: ci rinuncio subito anch’io e devolviamo tutto ai circoli giovanili della città.

La mattina dopo Fabrizio però si sveglia con un rodimento interiore e poi – in San Martino, a pranzo da mia madre – scopre le carte: dice che è come si sentisse, anche personalmente, per via della sua classe sociale di provenienza, in colpa per la mia – per me abituale ed a lui da sempre nota – povertà.
Da amico, dopo avermi offerto denaro da me subito rifiutato, mi chiede cosa avrei fatto se avessi i soldi che lui aveva comunque, anche come famiglia. Gli dico, quasi infastidito, che come prima cosa mi sarei comprato una bella Giannini ‘a spalla cadente’ fatta a mano come la sua, che pare un liuto, invece di continuare a suonare con una qualunque chitarra da poco.
Di slancio Fabrizio subito mi regala la sua chitarra rendendomi al contempo felice e imbarazzato e poi, quando mia madre faceva ormai servire il caffè, di nuovo chiede cosa ancora io desideri e così, ora davvero imbarazzato davanti a Vera e a Dori e a mia madre, per farlo smettere gli chiedo il massimo: venire a trovare Vera e me con Dori entro pochi giorni a Selinunte, dove eravamo al mare quando mi aveva raggiunto per telefono al ‘Lido Azzurro’ tramite mia madre (che da beata capotavola presiedeva ora alla tenzone con occhi dimessi che solo io sapevo sbalorditi) per farsi organizzare il concertone di Pisa. Poi da Selinunte, gli dissi, saremmo andati a trovare una mia cugina di Marsala, sua ammiratrice, per farle una bella sorpresa.
Accadde l’imprevisto. Fabrizio e Dori accettarono l’nivito sorridendo senza esitare e tornai davvero in ‘Lambretta’ con Vera, giù in Sicilia, a Selinunte, ad aspettarli.

LA ‘VESPA DIMAGRITA DEGLI AMANTI DEL JAZZ
La vecchia ‘Lambretta’ era quella che l’amico pisano Afo Sartori, innamorato del jazz, prestò quell’estate a Vera e me per muoverci agilmente ‘su e giù per lo stivale’ ed era la stessa che, una decina di anni prima, aveva prestato diverse volte a me e ad un nostro comune amico amante del Jazz, Nino Lo Bello, per andare – in due, al freddo, aggrappati a cavalcioni su quella ‘Vespa dimagrita’ – fino a Sanremo per sentire (e vedere e toccare e abbracciare!) le stelle presenti all’annuale internazionale e vivissimo ‘Festival del Jazz’ di quella bella località,  altrimenti nota per il suo annuale ‘Festival della Musica Leggera’ nazionale da molti ed io per primo con orrore definito ‘la tomba della canzone italiana’ per via della musica, davvero troppo leggera, di tali barbose riunioni.
Fu grazie a quei disagiati viaggi a Sanremo per ‘vedere il Jazz’ che in una di tali occasioni, attorno al ’68, ci intravedemmo per la prima volta con Fabrizio, anche lui appassionato di jazz e come noi a Sanremo a caccia di emozioni.
Ci conoscevamo prima solo di fama: di sei anni più grande, lui sfornava su piccoli 45gg le sue prime canzoni, io invece ero ‘quello del Canzoniere Pisano’ che aveva pubblicato il primo disco (‘Canzoni per il Potere Operaio’) e da Pisa faceva parlare di sè. Miracolo del Jazz, la stessa Lambretta servì poi a Vera e a me, nel ’75, per affiggere i manifesti del concerto di Fabrizio in Sicilia.

CHE C’ENTRA PINO VENEZIANO
Eravamo lì di nuovo a Selinunte, Vera ed io, stavolta in attesa di Fabrizio e Dori, e andiamo a Marsala a trovare mia cugina. Dopo il pranzo dico separatamente a suo marito che tra pochi giorni vorremmo tornare a trovarli con il nostro amico Fabrizio De Andrè : “Per mia cugina sarà una bella sorpresa, se non schianterà per l’emozione!”, dico a suo marito per esser certo di trovarli a casa il giorno giusto… ma lui mi trae ancor più in disparte per saperne di più e, infine, decide che comunque io la pensi lui correrà in Comune a chiedere lo Stadio.
“Non è giusto tenere Fabrizio per noi senza offrirlo a tutti!”, mi dice, e fu così che, come nel bel miracolo cristiano dei pani e dei pesci che non finivano mai, la somma di tutto l’Amore che era nei grandi e piccoli atti di tutti noi fece in modo che la bella sorpresa a mia cugina si moltiplicasse d’incanto in una bella sorpresa per tutti: il marito di mia cugina (da noi felicemente sorpreso) corse eccitato in Comune a chiedere lo Stadio, in Comune (felicemente sorpresi) concessero lo Stadio immediatamente, un tipografo (sorpreso da noi nel sonno) stampò di notte i manifesti, Vera ed io (sorpresi per la seconda volta in piena vacanza) corremmo ad attaccare tutti quei manifesti in giro per la Sicilia, molti Siciliani (favorevolmente sorpresi e seminudi per la calura) decisero subito, sotto gli ombrelloni, di venire a vedere a Marsala a vedere e sentire Fabrizio, mia cugina (sorpresa e finalmente felice) potè conoscere Fabrizio e averlo a pranzo prima del concerto, Fabrizio (sorpreso da me in albergo di nuovo a letto con la Dori) venne e cantò per ore per tutti allo stadio.
E le gradinate? Piene di gente da tutta la Sicilia! Bene. Ma don Pino? Che c’entra Pino Veneziano? 
Dulcis in fundo, la sorpresa che tenevo in serbo per i più pazienti: deliziati e sorpresi anch’essi, ora sapranno.
Don Pino (tanto sopreso da rischiare un infarto) seppe da me di dover cantare con Fabrizio De Andrè allo stadio comunale di Marsala.
Fabrizio (da me sorpreso di nuovo e stavolta a tradimento quando mi chiamò a cantare sul palco a metà concerto come a Pisa) mi vide salire con Pino Veneziano e presentarlo al pubblico senza il suo permesso e cedergli il posto mio per cantare tre delle sue canzoni.
i Siciliani presenti (di nuovo favorevolmente sorpresi) fin dalla prima sua canzone, ‘la Jatta’ (la gatta), letteralmente sommersero don Pinu di applausi.

LA POMPA MAGNA
Era la ‘pompa magna’ di cui avevamo bisogno: carta da visita prestigiosa, utile a fare uscire un già grandissimo cantastorie dall’anonimato ‘ufficiale’ moderno pieno di nodi da sciogliere non meno di quello antico.
Potevamo ora premere su LC e, con buone ragioni, sperare che venissero superate le cautele della sua ‘Commissione Nazionale di Finanziamento’.
Forse Piero Nissim e Sergio Martin potevano ora ottenere carta bianca ed editare l’ellepì di Pino Veneziano “Lu patruni è suverchiu” (il padrone è superfluo), l’unico che purtroppo incise e che possiamo ancora ascoltare.
Pierino e Sergio si dettero molto da fare per questo: lo so perchè, in ansia come un padre sebbene Veneziano fosse piùgrande di me, con grande discrezione (ero uscito dalla Direzione e non mi sarei dovuto immischiare) ne seguivo le mosse.
Inciso il suo disco ed augurato a don Pino ogni fortuna, mi stavo ora impegnando a far uscire anche il mio, “Compagno, sembra ieri”.
Prima le resistenze del Sofri a pubblicarlo nei ‘Dischi di LC’, poi il rifiuto della ‘Produttori Associati’ seppure fossi appoggiato dal desiderio di Fabrizio…
Se non trovavo un buco nella cuffia quella canzone (la cui sincerità, ora capivo, dava fastidio a molti) rischiava di ammuffire.
Mi sentivo solo al mondo. Dopo un decennio di Amore per tutti, dal ’66 al ’75, era ora giunto il tempo in cui molti – se non entravano in primalinea o nelle bierre per mettersi in ritardo a sparare – finivano per usare la siringa o girare i bar da veri alcolisti, ma il ‘rotto della cuffia’ – da cui uscii col mio bel disco in mano – me lo indicò Mara Lazzarino, che a Milano sempre mi ospitava all’occorrenza: vado a trovarla e, dopo una mia mezzora di lamenti, “Pino, devi far pace con Gianni Bosio e quelli del Nuovo Canzoniere, che lasciasti per pubblicare la collana dei dischi di Lotta Continua, e pubblicare l’ellepì per i Dischi del Sole!”, mi disse semplicemente con brevità e lucidità e schiettezza.
Fu così che, grazie a Mara, anche ‘Compagno sembra ieri” finalmente uscì.

COSA ALTRO DIRE
Su don Pino Veneziano mi è difficile ricordare altro in maniera ordinata: dopo tanti anni, coordinare volti e situazioni e date non mi è più tanto facile.
Dopo quel ’75, che fu un anno anche molto amaro perché – oltre ai bei concerti di De Andrè a Pisa e a Marsala e all’incisione del ‘long playng’ di Pino Veneziano e del mio – vide la fine naturale del mio novantacinquenne nonno Peppino, quella orribile del mio amico Peppino Impastato, quella indicibile di Pier Paolo Pasolini con cui avevo condiviso opinioni e collaborato per tre anni al film “12 Dicembre” sulla strage di Milano, ho vissuto ogni estate per mesi e mesi a Selinunte fino all’85 alternati con altri mesi a Pisa o in giro per l’area mediterranea in cerca di ritmi berberi ancestrali. Dall’86 all’88 ho poi abitato a Trapani per lavoro, tenevo in diretta una trasmissione sul folklore da una televisione locale.
Anche da lì giravo la Sicilia per mio studio e diletto: mie mete preferite erano Selinunte, dove sempre vedevo don Pinu e gli altri, e Menfi, sull’altra riva del Belice dove inizia il territorio di Agrigento che migliaia di anni fa visse la magica filosofia del grande Empedocle e dove, ora, incontravo settimanalmente il mio maestro in ritmica berbero-mediterranea ed ottimo chitarrista e amico Antonino Barbera. Ho continuato dunque così, in Sicilia fino a fine ’88, a condividere con Pino Veneziano le cose che già ci univano, se non avevamo altro da fare.
Oltre lo struggimento comune a tutti noi per le sorti del mondo (che, dopo due parole sulle novità, don Pinu ed io condividevamo in addolorati silenzii) ci univa parlare di Natura & Amore & Musica o passare il tempo a cantarci le nostre nuove canzoni in corso d’opera per ricavarne reciproci suggerimenti e giudizi e, solo
se capitava un improvviso un gruppo di turisti o di clienti amici, a divertirci alla grande cantando sbalordendo gli attenti commensali come in quell’area di Magna Grecia si è usi fare dai tempi del nostro mitico fondatore Omero.
In Pino Veneziano ‘vedevo’ Fedro e le sue favole morali. Infatti, se aveva tempo e voglia, gli chiedevo di cantarmi ”La Jatta’, ‘Settembri’ e ‘La Festa di li Porci’, che preferivo tra le sue canzoni. A prescindere dal dato meramente politico era l’aspetto greco, insieme ludico e morale, quello che più m’incantava di Pino Veneziano e che a memoria anche oggi se capita l’occasione canto: un tesoro da riscoprire per far di nuovo vivere il nostro caro scomparso poeta-cantastorie.

GLI ULTIMI ANNI
Negli ultimi cinque anni di vita di don Pino non fui presente. Ero tornato dall’ ’89 a Pisa dopo l’atroce uccisione per mano mafiosa a Trapani del mio amico Mauro Rostagno e, da Pisa, mi ero occupato della situazione internazionale e partito per missioni di pace in Medio Oriente per conto della Lega per il Disarmo, prima e durante e dopo la ‘guerra del golfo’ del’90/’91.
Meno male però che, prevedendo la fallacità della mia memoria, da bravo allievo di Gianni Bosio e per suo tramite ‘param param’ di Ernesto De Martino, quando – estate ’88 – don Pino Veneziano già non era più nel giro dei due ristoranti che cantando avevamo reso famosi, mi venne voglia di andarlo a trovare a casa.
Lo feci con un mio operatore trapanese (lavoravo per l’emittente televisiva “Telescirocco”) che filmò ogni particolare di quell’incontro colmo di affetto e rispetto, di popolare cultura e bellezza, di puro amore per musica e poesia, di slanci euforici ed amare riflessioni.
Non appena digitalizzato, potremo mettere anche questo in rete come contributo alla memoria di don Pinu e (se riesco a raschiar bene il fondo del barile) avremo anche la sua presenza alla trasmissione tv che tenevo il giovedi sera in diretta. Anche per ascoltare le canzoni dell’unico disco di Pino Veneziano (e averne i testi e la loro traduzione dal Siciliano) occorre pazienza: c’è da sudare, da parte di chi ne dispone, per riversare e immettere in rete il tutto. 
Più in generale, verranno spero i contributi piccoli o grandi di chi, tra gli amici di don Pino, possiede ricordi, foto, brani inediti. Cose, queste, che tutte si assommeranno e solidificheranno fino a consistere in quello che vorrei vero ‘Monumento Documentale alla Vita e alle Opere del Cantastorie Pino Veneziano’.

NON C’ERANO CANTASTORIE SU WIKIPEDIA
Ce n’è davvero bisogno in un mondo ‘ufficiale’ che accolse su Wikipedia sia me che l’amico don Pinu, con biografia e tutto il resto, ma sotto la categoria dei ‘cantautori’. Ci son voluti tre anni di proteste per farmi definire come cantastorie e non come un comune, commerciale e moderno 
cantautore. Prima delle mie proteste, sull’enciclopedia più imponente e popolare del mondo la categoria ‘cantastorie’ non esisteva. Avrebbe avuto ragione così con Wikipedia anche Vincenzo Consolo quando – in apertura del suo contributo alla memoria di don Pino Veneziano –  addolorato afferma che ora “si sono perse le voci, e per sempre, dei poeti e dei cantori popolari di Sicilia così come d’ogni altra regione o plaga di questo nostro paese, di questo nostro mondo d’oggi assordato dai clamori imperiosi della violenza e della stupidità”. Toccandomi bene, affermo invece che in questo mondo moderno, certamente “assordato dai clamori della violenza e della stupidità” non più di quello antico, di cantastorie ce ne sono per fortuna ancora tanti ed invito Vincenzo Consolo e tutti a vedere e ascoltare su Youtube il grande Filippo Leonardi (di cui mi sento uno dei più fanatici fans) ed anche quella giovane mamma palermitana, della quale mi sfugge purtroppo ora il nome, che ho visto e sentito cantare nelle piazze, con chitarra e cartellone figurato dipinto a mano, contro il Muos a Sigonella: li vedo lottare, instancabili come Omero nei Sepolcri del Foscolo, contro i clamori della violenza e della stupidità al fine di ‘bucare il video’ della attuale telecrazia e dare a tutti Verità, Cultura, Amore.
Bene farà dunque il Consolo a non trarre conclusioni affrettate sulla nostra estinzione e a trovare il tempo per dare una occhiata in rete: le preoccupazioni sue, certo dettate dal suo amore per noi cantastorie, svanirebbero. Sarebbe felice di scoprire nuovi cantastorie e felice – anche se in questi anni se ne sono purtroppo andati Pino Veneziano e Alfredo Bandelli, Fabrizio De Andrè e Ciccio Busacca, Rosa Balistreri, Ivan Della Mea ed Enzo Del Re – di ascoltare Claretta Salvo e Rocco Pollina di Trapani, di ascoltare me che tra Selinunte e Pisa faccio da mezzo secolo la spola e di ascoltare anche Giovanna Marini, il nobel Dario Fo, l’oscar Roberto Benigni, Marco Chiavistrelli, Davide Riondino e tanti altri. Paolo Pietrangeli no, meglio dimenticarlo, lui ha mollato: l’autore incazzatissimo, solo nel ’68, di ‘Contessa’ – vinto per fame, lui dice – abbandonò il nostro duro mestiere per dedicarsi alla regia televisiva del piduista Maurizio Costanzo ‘Show’ nelle reti del piduista ‘Silvio, Presidente del Consiglio’.

UNA DEGNA CORNICE
Dovrei ora, a conclusione, per circondare il ricordo di Pino Veneziano in una degna cornice, dire anche del nostro “pubblico” di allora. Lo metto tra virgolette perché, per fortuna, normale pubblico non era ma uno stormo di Artisti in quantità ed assetto variabile, a loro volta comprimari, protagonisti di continui Cori ed anche improvvisi e provetti Danzatori, promotori e direttori di Battimani di intere lunghe file di ‘Clienti-attori’ tutte attraversate da ‘Attori-camerieri’ che (come varcando a piedi onde di mare) raggiungevano volta volta con piatti e vassoi la giusta fila di destinazione con reali acrobazie (condite di battute e di risposte a tono), riuscendo anche a far sì che sui loro grandi vassoi, tenuti in alto per portare i caffè, i molti cucchiaini sdraiati sui piattini a lato di decine di tazzine fumanti squillassero tutti a tempo nelle ‘calcolate’ ma inevitabili scosse del percorso.
Non solo Buttitta prima e poi Borges ne furono incantati ma, ora ricordo, anche Lucio Dalla e De Andrè e, sulla copertina del solo disco di Pino Veneziano, campeggia oltre alla bella nota di Ignazio Buttitta che lo presenta una magnifica veduta con “Amore tra i capitelli e le dune” incisa dal Tono Zancanaro che Selinunte scoprì prima di altri.

Di quella magica atmosfera selinuntina, di quel sogno senza tempo che mi vide giovanissimo cantare le canzoni di Fabrizio e poi da grande portarlo di persona a godere di quella sorgente di luce adeguata al locale millenario passato, ricordo tutto. Persino gli odori. Ma dei cento magici ‘attori’ che allora eravamo (come volessi ora ripensare dopo mezzo secolo a intere classi di compagni di scuola) ricordo solo i comprimari. Lo ‘zio’ Ignazio ad esempio, ‘lu zu Gnaziu’ padre di bambini che da grandi ho ancora amici miei (uno di essi mi ha portato a Berlino a cantare anni fa in un suo locale): per ‘fare il basso’ soffiava forte nel suo ‘Bbùmmulu’ di terracotta preferito, facendolo volare in alto e a tempo! Poi c’era Tano (Tanùzzu, detto anche ‘Napuliùni’ per la sua bassa statura) che schioccava le mani a tempo davanti alle labbra, con miracolosa varietà di timbri, modificando ad arte il cavo orale. C’era Giacomino, un forse ex tombarolo’ che – genialmente assunto dalla Sovrintendenza Archeologica – diventò per davvero e onestamente uno dei maggiori protagonisti dei ritrovamenti che portarono all’attuale assetto del Parco Archeologico selinuntino: silenzioso e immobile salvo i movimenti improvvisi del capo, contribuiva felice alla performance guardando fisso per due secondi netti uno per uno i presenti lanciando (e assicurando così a turno a tutti) un ciclico rifornimento di nutrienti sorrisi. C’era poi Nenè detto ‘Addrìna’, cioè gallina, ‘cameriere-comico’ con me affettuosissimo, che impreziosiva il suo ruolo nello show con un curioso (e per tutti esilarante) incedere, velocemente a brevi tratti alternati da altri, lentissimi e mimicamente esibiti come momenti di estrema cautela. In più, Nenè era spesso incrociato nel suo lavoro dal ‘mimicamente inciampante’ procedere di un altro degli ‘attori-camerieri’ tra battute e risate: il gigantesco buon “Mariano elefante di Lugano” che, una volta capitato da turista a Selinunte, s’era inventato cameriere per non tornare a vivere tra le Alpi.

Buono il Mariano. Brava persona. Di regola sereno, ma a volte lo incontravi in giro pensoso come Peppe ‘Junta’, il misterioso pescatore in proprio di Selinunte che viveva da solo in una casupola lungo il mare poco fuori paese verso la foce del Belice e che – quando raramente si vedeva in paese – rischiava di passar per matto se parlava a lungo con turisti (con noi abituè comunicava quasi solo a gesti) perchè si ostinava a dir loro che, non visto, lui la notte incontrava sulla spiaggia dietro l’Acropoli gli extraterrestri che, a suo dire, spesso ci atterravano. Due curiosi però, che una volta l’avevan seguito dal tramonto in poi a piedi a pescare da riva con le teste di sarda come esca, tornarono correndo due ore dopo, affannati e scossi, dicendo d’aver visto un grande oggetto luminoso scendere in silenzio lentamente sulla spiaggia là dietro e poi ad un tratto (visto che Junta non era da solo) risalire in meno di un secondo in cielo tra le stelle e, come una stella filante, sfrecciare poi ad angolo retto in orizzontale verso Palermo fino a sparire. Uno dei due ‘curiosi’, non ricordo il nome, era aiutocameriere al ‘Lido Azzurro’. Jojò forse ricorda e se passate da Selinunte chiedeteglielo: da tempo Joiò, in spiaggia, tra il porticciolo e l’Acropoli, gestisce il ‘Lido Zabbara’.

Lo zio Vincenzo infine, era davvero unico: per questo traccio qui di lui un ritratto a parte. Tra i tanti che si era in estate (ogni giorno a pranzo almeno cento tra ‘Ristor-attori’ e ‘Clienti-attori’ tra cui molti ‘Attori-turisti’, poi ‘repliche’ dopopranzo e a cena e dopocena, sempre, fino allo stremo, don Vicè’, lu zu Vicè, lo zio Vincenzo, era l’unico tra noi ad essere ‘attore’ senza alcuna fatica. Cenava con la moglie a casa, dove di giorno vendevano (porta a porta con la ‘attrice-sacerdotessa’ che donava benedizioni e consigli) granita di limone fatta da loro e, appena dopo cena, appariva improvviso generando un subitaneo e lieto volgersi a lui delle teste di tutti sulla porta del ristorante zeppo di pirati.
Pieno di grazia procedeva oscillante, sfiorato carezzato, a tratti quasi sorretto, da noi tutti più giovani, i suoi ‘putti’, come un Sileno nei sacrali cortei graffiti attorno agli antichi vasi su cui potevi allora inciampare a Selinunte se camminavi a caso tra le dune. Sapendosi al ‘Centro dell’Universo’ più di ogni altro di noi, don Vincenzo sorridente e tranquillo si accomodava infine nella scena fiabesca seduto bene in vista in prima fila e, come ignorando un proprio ruolo e perfino sè stesso, senza guardare particolarmente qualcuno, semplicemente si divertiva.
Chi lo guardava però ne traeva emozioni che altri ‘attori’, don Pino Veneziano ed io compresi, non potevano dare: il suo modo di sgranare gli occhi era spettacolo, il suo ammiccare e ridere tra sè, il suo frequente quasi cadere all’indietro nelle risate più grevi e tonicamente più gravi erano spettacolo di per sè, gioia pura. Poi, ma non sempre, non certo su ordinazione (che credo nessuno mai si permise fare), ispirato e preso in pieno dalla voglia di suonare, magicamente estraeva dall’ombra uno dei suoi strumenti meravigliosi (chitarre e mandolini che si costruiva da sè) e, inevitabilmente, quel momento era per noi tutti il premio più ambìto: perfettamente omogeneo a quanto di lui già detto, non si atteggiava a protagonista e – continuando a ridere tra sè – suonava davvero divinamente, accompagnando a chitarra (o infiorettando a mandolino) il cantante di turno.

Eravamo solo don Pino Veneziano ed io all’inizio a cantare – i primi tempi, finché la cosa non cominciò a diventare un fenomeno – intramezzati negli anni a seguire prima da Claretta Salvo (grande come Rosa Balistreri nel cantare e, nelle lettere, alieva preferita e amica di Elsa Guggino che insegnava tradizioni popolari nell’atenèo palermitano e poi, in seguito, da altri cantori e musici e poeti siciliani di passaggio (sempre in aumento ed accolti con gioia man mano che la notorietà del magico luogo si espandeva) e poi, ancora avanti, cominciarono a cantare con noi anche i più giovani come Rocco Pollina che componeva facendo la spola tra Selinunte, Trapani e Milano e, sempre tra i giovani, Umberto Leone che dopo averci amato a distanza da bambino – da Castelvetrano dove abitava e da dove veniva al mare – cominciò, ‘strimpellatore-adolescente’, a gestire nostri interventi nel liceo dove ‘studiava’ e, poi maggiorenne, riuscì a dare finalmente un calcio agli inutili studi e a metter casa e famiglia e bottega a Selinunte e a non esser più costretto a pendolare: da allora, nelle mie frequenti successive discese a Selinunte, lo trovai presente a godere i benefici di quella terapeutica situazione e – per sua agognata e meritata fortuna – ad affermarsi come chitarrista e cantante fino ad essere oggi uno tra i maggiori curatori del ricordi di Pino Veneziano e interpreti delle sue canzoni.

Dovrei ora parlare di Joiò, che ho citato appena qua e là e di cui posso ancor dire solo e minacciare che (se non farà presto il suo dovere di scrivere su quei magici tempi selinuntini) sarò io a scrivere un grosso libro su di lui visto che fu lui, vettore per tutti noi, il primo ad operare in direzione di quel che è comunque stato l’inevitabile sviluppo ‘moderno’ di Selinunte. Di poco più grande di me (non di tredici anni come Pino Veneziano ma di soli quattro o cinque), conobbi Joiò ancora adolescente e inizialmente lo frequentai attorno ai miei dodici anni. Lui ne aveva credo diciassette (si era ‘appena svezzati’, allora che si diventava ‘maggiorenni’ solo a ventuno).
Jojò faceva, proprio sotto il ‘Lido Azzurro’, il bagnino della ‘spiaggetta privata’ dove andavo di straforo a fare il bagno: amavo fare i tuffi dalla ‘rocca di calanninu’, uno scoglio isolato, poco distante dalla riva, quando d’estate da Pisa scendevo felice in vacanza per mesi da nonno Peppino. Avevo già la chitarra (che indossavo fin da ragazzo come un vestito buono e che fu la mia prima ‘ragazza’) e così, in spiaggia, ospite sotto l’ombrellone di Jojò, mi accompagnavo cantando all’inizio canzoni nonsocchè di nonsocchì per lui e le sue amiche e, poi, anche le primissime di De Andrè che ‘in continente’ già circolavano e infine, dopo altre estati, prima timidamente e poi bene, anche le primissime mie. Dirò ancora che il giovane ‘bagnino’ Jojò dalla spiaggia saliva al Lido Azzurro per mangiare e mi offriva qualcosa perchè non dovessi rientrare per pranzo e mi faceva di nuovo cantare un poco anche lì e che lo zio Ignazio, allora cuoco in cucina, mi sentiva e usciva fuori a soffiare sul suo bellissimo ‘bùmmulu’. Poi arrivò Veneziano, già poeta, in cerca di lavoro come cameriere e scoprì che a Selinunte poteva imparare la chitarra dallo zu Vicè.
Il resto ormai lo sapete, di me e Joiò compresi che questo nuovo millennio trova uno vicino a Pisa a scrivere di Pino Veneziano e di ‘allora’ e l’altro a Selinunte al ‘Lido Zabbara’, epicentro del premio annuale in memoria di Pino Veneziano.

Che altro? Sinceramente, non potrei chiudere il ricordo di quel magico spazio-tempo senza ripetere che lo zu Vicè era allora tra noi l’unico veramente ‘grànni’ (grande) in ogni senso anche da vecchio: lui il maestro vero e senza emme maiuscola che fin da piccoli ci è stato d’esempio con il suo fare e il suo non fare, lui che adolescenti ci ha incantato con le musiche che uscivano dalla sua bottega, lui che – per liberarci – da grandi ci è stato complice ‘maestro-attore’ nel suonare e nel vivere (ci ha costruito strumenti, ispirato testi, insegnato vecchie melodie ed accordi) e che – come mio nonno Peppino che fu scultore, poeta e divino oratore – tutto donò di sè senza nulla prendere a parte il cibo. Grande davvero anche lo zu Vicè del tempo in cui io e tutti gli altri cento ‘attori’ detti e non detti oscillavamo al massimo tra i venti ed i quaranta. Ci aveva deliziati da bambini con la sua granita di limone quando giungeva d’incanto sulle spiagge con il suo geniale e poetico (nonché da lui ideato, costruito e decorato) ‘carrettino a pedali con baldacchino’ e si può immaginare lo stupore in più che dava specialmente a noi piccoli quando, ad un suo richiamo vocale, bianconere e splendenti al sole, scendevano improvvise a volargli attorno con giri affettuosi finché, allegro, non le congedava chiamandole per nome, ‘li tri soru carcaràzzi’ (‘le tre sorelle cornacchie’), tre gazze libere e adulte che aveva lui stesso allevato come bambine non appena cadute dai nidi in primavera.
Quando invece, da Pisa, d’inverno scendevo da nonno Peppino per le mitiche vacanze di Natale, niente granite di limone ma lo stupore e l’incanto c’era lo stesso se guardavi lu zu Vicè (quando potevo lo guardavo ad ore) seduto al tiepido sole invernale sulla soglia di casa intento a intagliare manici di strumenti o a laccare di tempere rosazzurrine ‘li facci di li ddei affisi’ (‘le facce degli dei offesi’) da lui intuite e poi liberate a scalpello dai legni depositati per lui dal mare sulla spiaggia davanti casa, oltre la strada. Se usciva dal suo silenzio operativo’ notando la mia presenza, dopo avermi salutato tirava fuori un mandolino e lo suonava pretendendo che io lo accompagnassi con la mia chitarra, se non sapevo ben fare mi metteva le dita in posizione sugli accordi e, una volta, mi fece vedere contento che si era costruito da solo addirittura un autentico banjo e scoprii che lo suonava da dio.

Lo straordinario zu Vicè (Vincenzo Fasulo all’anagrafe sabauda, ma da noi indigeni chiamato ‘Pidicuddru’, cioè ‘Gambo’, nome di battaglia ora ereditato dal figlio Tano, amico di tutti e ‘panellaro’, cioè venditore ambulante di panini ripieni di ‘panelle’ fritte di farina di ceci) aveva casa-bottega sulla via principale, lungo il mare, porta accanto a quella della attrice-santona del paese che viveva sola dando consigli e benedizioni a chi la visitava.
Già detto questo, è vero, ma aggiungo che da quella porta (da noi piccoli mai varcata ma sempre presente alla mente tra curiosità e timore) uscivano vapori d’incenso e profumo di fiori e aggiungo che, una volta, nel ’78, da grande, in quella porta sempre aperta entrai distrutto (da pochi giorni a Pisa mi ero lasciato con Vera) e ne uscii, poco dopo, sereno al punto che riuscivo persino a respirare.

Mi aveva fatto cenno di venirle accanto e, circondato e carezzato dolcemente il capo in silenzio per un momento infinito, voltandosi indietro aveva poi scelto decisa un mazzetto di fiori selvatici (tra i tanti che raccoglieva ogni giorno e che riempivano le mensole alle pareti): me lo consegnò dicendomi che ora stavo meglio e mi congedò sulla porta prescrivendomi – se mi fossero prese di nuovo ‘li tristizzi’ (‘le tristezze’) – di odorare quei fiori e chiudere gli occhi e pensare a lei la durata d’una Ave Maria respirando lento. Infine, su di lei aggiungo che molti anni dopo la trovai all’alba sul molo, stravecchia ma comunque vera sacerdotessa di quel magico teatro greco: muta, con ieratica dignità, immobile come una dea, fissando il mare lasciava si raccogliessero in un suo canestrello di giunco intrecciato posto ai suoi piedi piccole offerte in pesciolini e granchi e polpi e ricci da parte dei pescatori, affezionati e sorridenti, sempre da lei scampati alle procelle.

Tra le scene del nostro teatro selinuntino di allora, quasi a firmare in bellezza la ‘cornice ambientale’ che ho posto attorno ai miei ricordi di Pino Veneziano, emerge ora, non per predisposta mia scelta ma per folgorazione in tempo reale, famosa in segreto e teatralmente potente come non mai, “La Guerra Dei Due Ristoranti”.
Come un”Opera dei Pupi’ siciliana o ‘Chanson de Roland” ambientata nel nostro teatro magico – dove i ‘pupi’ sono veri attori in carne ed ossa – è la ‘guerra’ tra il ‘Lido Azzurro’ e ‘La Zabbara’, i due ristoranti selinuntini già noti a chi ci legge.
Evento ormai ‘storico’ degno di cronache non solo mie, tanto epico e grasso da fare esultare Omero ed Aristofane, questa ‘batracomiomachìa’ giace – come altre cose archeologicamente tuttora sepolte a Selinunte – nella memoria di tutti senza mai fin qui uscirne e, questo, solo per il buffo modo che il Fato usò per sedare i combattenti.

Una tiepida sera autunnale di mezzo secolo fa, a Selinunte, le ciurme al completo dei due noti ristoranti, sfibrate dalla noia dell’inazione che sostituiva col venire dell’inverno l’altrettanto sfibrante stacanovismo estivo, seriamente si sfidarono per un’intera notte a colpi di pomodori, olive, ortaggi, uova e arance.
Vietato ogni altro proietto o arma propia o impropria, vietata ogni diretta violenza a parte il lancio dei suddetti prodotti biologici. Niente ostaggi. Campo di battaglia il paese intero. Inizio al tramonto. Durata fino alla vittoria o alla disfatta.

Nell’insieme – a parte i pochi sfortunati Carabinieri che non erano stati invitati e giunsero all’alba – oltre cento gli attori coinvolti nell’evento, comprendendo essi non solo tutti i ‘ristor-attori’ dei due locali dagli chef-attori agli attori-camerieri ed agli attori-aiuto-camerieri fino ai valorosissimi e veloci ‘sguatter-attori’ ma anche – al loro seguito – decine di ‘client-attori’ intruppati nelle due tifoserie ed in più, per rodata fiducia in me delle già decise schiere, io che avrei fatto a sorpresa severi controlli sulla natura dei proietti e sui modi di combattere con pena di espulsione per i contravventori. Tutti gli altri indigeni si serrarono in casa al fine di non essere d’intralcio o presi di bersaglio e si accontentarono di guardare lo spettacolo gratis da dietro le finestre, idem fecero i pochi turisti invernali guardando dalle finestre delle ‘stanze in famiglia’ affittate.

Assalti, scaramucce, brevi fughe, agguati e rincorse con molte ‘vittime’ e niente prigionieri durarono tutta la notte tra aperti scontri di massa (traboccanti di urla e di risate) e silenziose imboscate per pochi intimi. Tanti, quasi tutti, gli attori colpiti di striscio o in pieno ed esteticamente malconci, ma nessun ferito. Tutto finì d’un tratto alle prime luci dell’alba – in perfetto pareggio – senza completa disfatta di alcuno a parte gli imprevisti malcapitati Carabinieri di cui ora vedremo.
Complici due attori-caratteristi, un nutrito gruppo di poco esperti generici e comparse (che attendeva di nascosto ad un crocicchio il ritorno di un’auto degli attori-avversari corsi al magazzino del proprio ristorante a rifornirsi di nuovi proiettili naturali) finì per colpire in massa all’unisono ‘con un improvviso consistente lancio di ortaggi ed uova’ la ‘sopraggiungente’ auto dei CC del paese che ‘nella fattispecie’, poichè tutto portava i degradabili segni di un’intera notte di ecologica battaglia a colpi di verdure, avanzava con il motore al minimo, esitante tra le case come un carro di marines americani in paranoia tra invisibili Vietcong.
Compiuto l’involontario ed unico misfatto, mentre i poveri Carabinieri scendevano – guardandosi smarriti inutilmente attorno – dall’auto coperta d’uovo ed infiorata di pomodoro e carciofi, fuggimmo tutti sgusciando ‘come anguille’ silenziosamente per vie traverse agli ora agognati giacigli: lo feci anch’io che niente di male avevo fatto salvo quello d’esser stato, a Selinunte, da sempre ‘fratello come Francesco e il Lupo’ di tutti quei simpaticissimi pirati.

ANCHE QUESTA E’ SELINUNTE
“Anche questa è Selinunte!”, esclamerebbe ora – fiero – don Pino Veneziano che di quelle magiche ciurme fece parte. Idealmente lo abbraccio e con lui saluto anche i superstiti non assopiti lettori. Nel salutarli, se ho ancora carìsma da spendere… lo spendo per invitare chi ha ricordi di don Pino Veneziano a metterli in rete,
come contributo, appena può.

simposio

Pubblicato da pinomasi

selinunte, marinella di selinunte, comune di castelvetrano, provincia di trapani, regione sicilia, nazione italia, madre siciliana, padre pisano, nonno materno scultore liberty ed oratore socialista rivoluzionario, nonno paterno poeta futurista e fascista dalla marcia su roma fino alla fine di salò, scuole in sicilia fino alla quarta elementare, quinta elementare e scuola media a pisa, maestro d'arte diplomato all'istituto statale d'arte di pisa con la migliore media di voti del suo corso, poi - come pittore allievo di severa e purificato all'accademia delle belle arti di firenze - studia anche anatomia e storia dell'arte e, al contempo, aderisce alpotere operaio pisano che ruota attorno alle con/vers/azioni di sofri cazzaniga dellamea luperini e fonda con alfredo bandelli e lydia nissim ed altri il canzoniere pisano dando inizio alla nuova canzone popolare di lotta che caratterizzerà il movimento di antagonismo politico culturale per tutto un quindicennio caratterizzato dalle lotte sociali e dall'unità tra studenti e operai, unità che dava al movimento di allora la forza bastante a richiedere ed imporre al sistema di potere bipolare asssoluto filosovietico o filoatlantico di allora una alternativa indipendente di democrazia diretta, esempio temibile di questa forza fu per i potenti di allora l'autunno caldo del 1969 ed a questa forza da loro temuta risposero immediatamente con la strategia della tensione iniziata appunto con la strage di piazza fontana a milano del 12 dicembre 1969, strage di cui lo stato accusava gli anarchici e di cui invece pino, in piena sinntonia con la nascente lotta continua di adriano sofri e di mauro rostagno, accusava lo stato come mandante ed esecutore della strage attraverso i suoi servizi appositamente segreti, nasce così il canzoniere del proletariato e la collana dei dischi di lotta continua, nascono i circoli ottobre, nasce il film di pasolini sulla strage e nasce la distribuzione militante dei dischi e del film e dei concerti con il circuito culturale alternativo rappresentato dai circoli ottobre, ma la strategia della tensione attuata dal potere centrò comunque il suo principale scopo e cioè quello di spostare improvvisamente lo scontro col movimento antagonista dal livello prevalentemente culturale a quello prevalentemente militare, che non poteva che portare al soffocamento culturale del movimento...