TEATRO GRECO, TEATRO GRECO SELINUNTINO

simposioTEATRO GRECO

Teatro greco, teatro greco selinuntino!
Non potrei parlarvi di teatro o di teatro musicale,
meno che mai di Living Music Theatre,
e neppure potrei con la mia Company aspirare
a creare un evento teatrale-musicale come “Just Love”
se non fossi nato e cresciuto in un magico luogo
che si chiama Selinunte.

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Se vi pare che, in vita mia,
qualcosa di bello e buono ed utile io lo abbia fatto,
devo affermare che quel poco che ho fatto
non sarebbe stato possibile se non grazie alle mie radici,
poi trapiantate a crescere e a dare frutto altrove.

E’ infatti allo spazio-tempo struggente della mia giovinezza
che ora attingo con la convinzione che sarà bello ed utile per voi
potere così vivere il magico contesto delle mie origini.

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Lo zu Vicè era l’unico veramente grande in ogni senso,
il maestro vero – umile, senza emme maiuscola –
che ci fu d’esempio con il suo fare ed il suo non fare.
Lui che da piccoli ci ha incantato
con le musiche che uscivano dalla sua bottega,
lui che da grandi ci è stato complice ‘maestro-attore’,
nel suonare e nel vivere, lui che ci ha costruito strumenti,
ispirato testi, insegnato melodie ed accordi e poi
– come mio nonno Peppino, che fu scultore e divino oratore –
tutto donò di sè, senza nulla prendere o pretendere.

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Grande davvero fu lo zu Vicè
quando d’estate ci trovavamo a ridere e cantare
io ed altri cento ‘attori’ detti e non detti
e per età oscillavamo al massimo tra i venti ed i quaranta.
Ma bisognaa dire che lo zu Vicè ci aveva deliziati fin da bambini
con la sua granita di limone
quando giungeva d’incanto sulle spiagge
con il suo geniale e poetico
(nonchè da lui ideato, costruito e decorato)
‘carrettino a pedali con baldacchino’.

Si può immaginare poi lo stupore in più che procurava,
specialmente a noi piccoli, quando,
bianconere e risplendenti al sole di riflessi azzurrini,
scendevano improvvise a volargli attorno con giri affettuosi,
(finchè allegro non le congedava chiamandole per nome)
‘li tri soru carcaràzzi’, ‘le tre sorelle cornacchie’:
gazze libere e adulte che aveva lui stesso allevato da bambine,
trovandole cadute dai nidi a primavera.

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Quando invece, d’inverno, da Pisa
scendevo da nonno Peppino per le mitiche vacanze di Natale,
niente granite di limone
ma lo stupore e l’incanto c’era lo stesso
se guardavi lu zu Vicè
(quando potevo lo guardavo ad ore)
seduto al tiepido sole invernale sulla soglia di casa
intento a intagliare manici di strumenti
o a laccare di tempere rosazzurrine ‘li facci di li ddei affisi’
(‘le facce degli dei offesi’)
da lui prima intuite e poi liberate a scalpello
dai legni depositati per lui dal mare
sulla spiaggia davanti casa

Se poi, notando la mia presenza,
usciva dal suo ‘meditabondo silenzio operativo’
tirava fuori un mandolino e lo suonava
pretendendo che lo accompagnassi con la mia chitarra
e, se il brano era a me nuovo e non sapevo ben fare,
mi prendeva la manoe poneva le mie dita sugli accordi giusti
senza mostrarmi alcun fastidio o delusione o impazienza
e una volta mi stupì davvero facendomi all’improvviso vedere
che si era costruito un autentico banjo
e quella volta suonò con quello invece che al mandolino e,
mentre lo accompagnavo a chitarra,
scoprii che lo suonava da dio.

Lo zio Vincenzo era davvero unico.
Tra i tanti che si era in estate
(ogni giorno a pranzo almeno cento tra ‘Ristor-attori’
e ‘Clienti-attori’ tra cui molti ‘Attori-turisti’, e poi ‘repliche’
a cena e al dopocena, sempre, fino allo stremo)
don Vicè’, lu zu Vicè, lo zio Vincenzo
era l’unico tra noi ad essere ‘attore’ senza alcuna fatica.
Cenava con la moglie a casa, dove di giorno vendevano
(porta a porta con la ‘attrice-sacerdotessa’ che donava benedizioni)
granita di limone fatta da loro e, appena dopo cena,
appariva improvviso,
generando un lieto volgersi a lui delle teste di tutti,
sulla porta del ristorante zeppo di pirati.
Pieno di grazia procedeva oscillante, sfiorato e carezzato,
a tratti quasi sorretto, da noi tutti più giovani, i suoi ‘putti’,
come un Sileno nei sacrali cortei graffiti attorno agli antichi vasi
su cui potevi allora inciampare a Selinunte
se camminavi a caso tra le dune.

Sapendosi al ‘Centro dell’Universo’ più di ogni altro di noi,
sorridente zio Vincenzo si accomodava nella scena fiabesca
seduto bene in vista in prima fila e, da quel momento,
come ignorando un proprio ruolo e perfino sè stesso,
senza guardare particolarmente qualcuno,
semplicemente si divertiva.

Chi lo guardava però ne traeva emozioni che altri ‘attori’,
don Pino Veneziano ed io compresi,
per quanto valentissimi e seguiti,
non potevano dare.
Il suo modo di sgranare gli occhi era spettacolo,
e lo era il suo ammiccare e ridere tra sè,
lo era il suo frequente quasi cadere all’indietro
nelle sue risate tonicamente più gravi.

Zu Vicè
anche quando non faceva niente
era spettacolo di per sè,
uno spettacolo di gioia pura.

Poi,
ma non sempre,
non certo su ordinazione
(che credo nessuno mai si permise fare),
ispirato e preso in pieno dalla voglia di suonare,
magicamente estraeva dall’ombra uno dei suoi strumenti meravigliosi, chitarre e mandolini che si costruiva da sè,
e quel momento era per noi tutti il premio più ambìto.

Perfettamente omogeneo a quanto di lui ho già detto,
non si atteggiava a protagonista e
– continuando a ridere tra sè –
suonava davvero divinamente,
accompagnando a chitarra
o infiorettando a mandolino
il cantante di turno.

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Lo straordinario zu Vicè,
Vincenzo Fasulo all’anagrafe sabauda ma,
ma da noi indigeni, chiamato ‘Pidicuddru’, cioè ‘Gambo’,
nome di battaglia poi ereditato dal figlio Tano,
amico ‘panellaro’ cioè venditore di panini
ripieni di ‘panelle’ fritte di farina di ceci,
aveva casa-bottega sulla via principale, lungo il mare,
la porta accanto a quella della attrice-santona del paese
che viveva sola dando consigli e benedizioni a chi la visitava
Da quella porta di santona – da noi piccoli mai varcata,
ma sempre presente alla mente tra curiosità e timore –
uscivano vapori d’incenso e profumo di fiori…
e aggiungo che una volta, nel ’78, da grande,
in quella porta aperta entrai distrutto
(a Pisa da pochi giorni mi ero lasciato con Vera,
mia grande compagna dal ’72 al ’78)
e ne uscii poco dopo tanto sereno
che riuscivo persino a respirare.
Mi aveva fatto cenno di venirle accanto
e accarezzato dolcemente il capo per un momento infinito,
poi voltandosi indietro di scatto aveva scelto decisa
un mazzetto di fiori selvatici tra i tanti che raccoglieva
e riempivano le mensole alle pareti e me lo consegnò dicendomi che ora stavo meglio e poi, sulla porta, mi disse
(se mi fossero prese di nuovo ‘li tristizzi’, ‘le tristezze’)
di odorare quei fiori e chiudere gli occhi e pensare a lei
solo per la durata d’un’Ave Maria respirando lento.

il tuffoTEATRO GRECO

Molti anni dopo la trovai all’alba sul molo,
stravecchia ma vera sacerdotessa di quel magico teatro greco: muta, con ieratica dignità, immobile come una dea,
lasciava si raccogliessero in un suo canestrello di giunco
posto ai suoi piedi piccole offerte in pesciolini e granchi e polpi da parte dei pescatori, affezionati e sorridenti,
da lei sempre scampati alle procelle.

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.
Non per mia scelta ma per mia folgorazione in tempo reale,
a firmare in bellezza i miei ricordi selinuntini emerge ora
– segretamente famosa e teatralmente potente come non mai –
“La Guerra Dei Due Ristoranti”.
Come un ”Opera dei Pupi’ siciliana o ‘Chanson de Roland” (però ambientata nel nostro teatro magico,
dove i ‘pupi’ sono veri attori in carne ed ossa),
essa è la ‘guerra’ tra il ‘Lido Azzurro’ e ‘La Zabbara’,
i due ristoranti selinuntini allora più noti.
Evento ‘storico’ degno di cronache non solo mie
(epico e grasso da far esultare Omero ed Aristofane),
questa locale ‘batracomiomachìa’ giace invece segreta,
archeologicamente sepolta nella memoria selinuntina
senza mai fin qui uscirne e, questo, solo per il buffo modo
che il Fato infine usò per sedare i combattenti.

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Una tiepida sera invernale di mezzo secolo fa, a Selinunte,
le ciurme al completo dei due noti ristoranti, sfibrate dalla noia dell’inazione che d’inverno sostituiva l’altrettanto sfibrante stacanovismo estivo, seriamente si sfidarono per un’intera notte a colpi di pomodori, olive, ortaggi, uova e arance.

Vietato ogni altro proietto o tipo di arma propia o impropria, vietata ogni diretta violenza a parte il lancio dei suddetti prodotti biologici. Niente ostaggi. Campo di battaglia il paese intero. Inizio dal tramonto. Durata, per volontà di entrambe le schiere, fino alla vittoria o alla disfatta.

Nell’insieme
(a parte i Carabinieri, non invitati, che giunsero all’alba)
oltre cento gli attori coinvolti nell’evento,
comprendendo essi non solo tutti i ‘ristor-attori’ dei due locali
(dagli chef-attori agli attori-camerieri ed attori-aiuto-camerieri
fino ai valorosissimi e veloci ‘sguatter-attori’),
ma anche – al loro seguito – le decine di ‘client-attori’
intruppati nelle due tifoserie
(più io che, per rodata fiducia in me delle già decise schiere,
avrei dovuto fare severi controlli sulla natura dei proietti
con severa pena di espulsione per i contravventori).

Tutti gli altri indigeni si serrarono per non essere d’intralcio
e videro lo spettacolo gratis da dietro le finestre di casa,
idem i turisti invernali dalle finestre delle ‘stanze in famiglia’.

Assalti, scaramucce,
brevi fughe e rincorse con molte ‘vittime’ e niente prigionieri durarono per tutta la notte tra aperti scontri di massa traboccanti di urla e di risate
e silenziose imboscate per pochi intimi.

Tanti, quasi tutti,
gli attori colpiti di striscio o in pieno
ed esteticamente malconci, ma nessun ferito.

Tutto finì d’un tratto alle prime luci dell’alba,
in perfetto pareggio,
senza la completa disfatta di alcuno…
a parte quella, totale,
degli imprevisti Carabinieri,
di cui ora vedremo.

Involontari complici ideatori del misfatto due attori-caratteristi,
un nutrito gruppo di poco esperti generici e comparse
– che attendeva di nascosto ad un crocicchio
il ritorno di un’auto degli attori-avversari
corsi al magazzino del proprio ristorante
a rifornirsi di nuovi proietti –
finì per colpire in massa all’unisono
‘con un improvviso consistente lancio di ortaggi ed uova’
la ‘sopraggiungente’ auto dei CC del paese che,
‘nella fattispecie’
(poichè tutto portava i degradabili segni
di un’intera notte di ecologica battaglia)
avanzava con il motore al minimo,
esitante tra le case,
come un carro di marines
in paranoia tra invisibili Vietcong.

Compiuto l’involontario ed unico misfatto,
mentre i poveri CC scendevano
– guardandosi inutilmente attorno –
dall’auto infiorata ‘di pomodoro e gusci d’uovo’,
fuggimmo tutti ‘come anguille’,
silenziosamente,
per vie traverse,
agli ora agognati giacigli.

Lo feci anch’io che niente di male avevo fatto
salvo esser stato, a Selinunte, da sempre
‘fratello come Francesco e il Lupo’
di tutti quei simpaticissimi pirati.

Pubblicato da pinomasi

selinunte, marinella di selinunte, comune di castelvetrano, provincia di trapani, regione sicilia, nazione italia, madre siciliana, padre pisano, nonno materno scultore liberty ed oratore socialista rivoluzionario, nonno paterno poeta futurista e fascista dalla marcia su roma fino alla fine di salò, scuole in sicilia fino alla quarta elementare, quinta elementare e scuola media a pisa, maestro d'arte diplomato all'istituto statale d'arte di pisa con la migliore media di voti del suo corso, poi - come pittore allievo di severa e purificato all'accademia delle belle arti di firenze - studia anche anatomia e storia dell'arte e, al contempo, aderisce alpotere operaio pisano che ruota attorno alle con/vers/azioni di sofri cazzaniga dellamea luperini e fonda con alfredo bandelli e lydia nissim ed altri il canzoniere pisano dando inizio alla nuova canzone popolare di lotta che caratterizzerà il movimento di antagonismo politico culturale per tutto un quindicennio caratterizzato dalle lotte sociali e dall'unità tra studenti e operai, unità che dava al movimento di allora la forza bastante a richiedere ed imporre al sistema di potere bipolare asssoluto filosovietico o filoatlantico di allora una alternativa indipendente di democrazia diretta, esempio temibile di questa forza fu per i potenti di allora l'autunno caldo del 1969 ed a questa forza da loro temuta risposero immediatamente con la strategia della tensione iniziata appunto con la strage di piazza fontana a milano del 12 dicembre 1969, strage di cui lo stato accusava gli anarchici e di cui invece pino, in piena sinntonia con la nascente lotta continua di adriano sofri e di mauro rostagno, accusava lo stato come mandante ed esecutore della strage attraverso i suoi servizi appositamente segreti, nasce così il canzoniere del proletariato e la collana dei dischi di lotta continua, nascono i circoli ottobre, nasce il film di pasolini sulla strage e nasce la distribuzione militante dei dischi e del film e dei concerti con il circuito culturale alternativo rappresentato dai circoli ottobre, ma la strategia della tensione attuata dal potere centrò comunque il suo principale scopo e cioè quello di spostare improvvisamente lo scontro col movimento antagonista dal livello prevalentemente culturale a quello prevalentemente militare, che non poteva che portare al soffocamento culturale del movimento...